Ratio e Presupposti
Come noto, il D.lgs. 22/2015 ha introdotto la NASpI, acronimo di Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego, costituente un’indennità di disoccupazione finalizzata a fornire sostegno al reddito dei lavoratori subordinati che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione. Secondo tale normativa, i requisiti per accedere a questo strumento di sostegno al reddito sono i seguenti:
- aver lavorato almeno 30 giorni nei 12 mesi precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione;
- aver versato almeno 13 settimane di contributi nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione;
- essere in stato di disoccupazione e, dunque, aver perso il lavoro involontariamente.
Dunque, come si desume dai predetti requisiti, tale riconoscimento viene ricondotto dal nostro ordinamento ad un elemento sostanziale, che consiste nell’involontarietà della cessazione del rapporto di lavoro: in termini concreti, in tutti i casi in cui questa è direttamente determinata dal comportamento datoriale (licenziamento) il lavoratore potrà beneficiare della NASpI, mentre nel caso delle dimissioni – trattandosi di un atto volontario del lavoratore – in linea generale tale possibilità non è prevista.
La regola generale soffre però di importanti eccezioni. Infatti, va considerato che non sempre le dimissioni sono veramente volontarie: si pensi ai casi in cui il dipendente è adibito ad una mansione o a turni logoranti, con gravi conseguenze sulla sua salute, oppure al verificarsi di fenomeni di straining o mobbing, nei quali il lavoratore subisce le continue vessazioni del datore di lavoro e/o dei propri colleghi e responsabili o, ancora, si può fare riferimento alle frequenti situazioni di dequalificazione e demansionamento, svilenti sotto il profilo professionale e sotto quello umano. Orbene, in tali ipotesi l’ordinamento ritiene che sebbene sia il lavoratore a risolvere il rapporto, la sua volontà non sia libera, ma condizionata dal datore di lavoro che, attraverso il suo comportamento lo ha di fatto costretto e indotto a dimettersi, integrandosi quindi un’ipotesi di involontarietà del recesso, la c.d. “giusta causa”, consentendo quindi l’accesso alla NASpI.
Sono molteplici i casi in cui le dimissioni sono direttamente riconducibili a comportamenti illegittimi del datore di lavoro, oppure a un ambiente di lavoro nocivo, in cui il lavoratore interessato subisce comportamenti ostili di colleghi e/o superiori gerarchici, a fronte dei quali il dipendente è appunto costretto a recedere dal rapporto per cercare una nuova occupazione, ed è proprio per questa ragione che tale situazione merita una tutela paritetica in favore del lavoratore come quella del licenziamento.
Le ipotesi di dimissioni per giusta causa
Una delle domande che viene posta più di frequente nell’ambito della consulenza in materia di diritto del lavoro è proprio quella di avere contezza in cosa consista la giusta causa delle dimissioni al fine di ottenere la NASPI.
In estrema sintesi, sulla base della più evoluta giurisprudenza rinvenibile in materia che fonda le proprie decisioni prendendo le mosse dall’interpretazione dei principi generali in materia di recesso nei contratti e nel disposto di cui all’art. 2119 c.c. – si ritiene che il lavoratore possa rassegnare le dimissioni per giusta causa sia sulla base di fatti attinenti al rapporto di lavoro, che di fatti ad esso estranei. Nel primo caso, la circostanza rilevante consiste in un inadempimento contrattuale del datore di lavoro tanto grave da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. Nel secondo, invece, la giusta causa viene ravvisata, a titolo esemplificativo, in un impedimento personale del dipendente che non gli permette di svolgere i propri compiti, oppure in talune circostanze particolari connesse, per esempio, alla natura dell’attività lavorativa o all’ambiente di lavoro – che rendono la prosecuzione del rapporto di lavoro “intollerabile” per il lavoratore.
Specificamente, tra le principali causali di dimissioni per giusta causa individuate dai Giudici vi sono:
- mancato o ritardato pagamento della retribuzione/omesso versamento dei contributi;
- comportamento ingiurioso del superiore gerarchico verso il dipendente;
- pretesa del datore di lavoro di prestazioni illecite da parte del lavoratore;
- c.d. mobbing o molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
- modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
- spostamento del lavoratore da una sede all’altra senza che vi siano “comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive” come richiesto dall’articolo 2103 c.c.
Inoltre, nel comma 4 dell’art. 2112 del codice civile è prevista un’ipotesi espressa di dimissioni per giusta causa a favore dei dipendenti di un’azienda ceduta. In questo caso, il dipendente può interrompere il proprio rapporto di lavoro in tronco entro tre mesi dal trasferimento d’azienda qualora, in seguito ad esso, vi siano state delle “sostanziali modifiche” delle condizioni di lavoro, indipendentemente dal verificarsi di un evento formalmente qualificabile come giusta causa.
Procedura Telematica
Da un punto di vista pratico, le dimissioni per giusta causa possono essere rese allo stesso modo delle dimissioni volontarie, ovverosia attraverso il portale telematico dell’INPS, che offre la possibilità di selezionare un’apposita voce, richiedendo soltanto una breve indicazione delle motivazioni costituenti “giusta causa” ai sensi della normativa citata.
Sebbene il portale dell’INPS non preveda l’allegazione di documenti comprovanti la causa che ha portato alle dimissioni, è importante sottolineare che la giusta causa deve sempre essere dimostrata e dimostrabile, sia per tutelarsi dal datore di lavoro, che potrebbe eccepire l’inesistenza della stessa e non corrispondere l’indennità di preavviso, sia nei confronti dell’INPS, per le motivazioni che vedremo legate alla corresponsione della NASpI.
In particolare, la fondatezza della giusta causa può emergere qualora i fatti che hanno reso il rapporto di lavoro improseguibile siano formalmente contestati al datore di lavoro, personalmente dal lavoratore, per iscritto, oppure attraverso l’intervento di un legale di sua fiducia. Allo stesso modo, costituiscono importanti indici di esistenza della giusta causa l’istanza di conciliazione presentata all’Ispettorato Territoriale del Lavoro o la proposizione di un ricorso dinanzi al Tribunale del Lavoro, fondate sulle medesime circostanze già oggetto di contestazione. Pertanto, al lavoratore che intenda rendere le dimissioni per giusta causa è fortemente consigliabile di consultare preventivamente preventivamente un legale: infatti, una consulenza giuslavoristica preventiva risulta fondamentale sia per verificare l’effettiva corrispondenza della situazione illegittima al concetto di “giusta causa” come previsto per legge, sia per contestare specificamente e formalmente al datore di lavoro il suo inadempimento.
Insieme alla domanda, il lavoratore è tenuto ad allegare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, dalla quale risulti la sua volontà di difendersi in giudizio e l’impegno di comunicare all’INPS l’esito della controversia. Si consiglia inoltre di allegare, a sostegno della fondatezza della giusta causa, anche eventuali lettere di intervento legale e/o istanze di conciliazione presentate all’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
È importante evidenziare che – in presenza dei requisiti fissati dalla legge – l’INPS non ha il potere di verificare la fondatezza o l’infondatezza della giusta causa, e pertanto non potrà discrezionalmente concedere o negare la NASpI, dovendosi al contrario attenere alle dichiarazioni del lavoratore.
Solo qualora – nell’ambito di un procedimento instaurato dallo stesso lavoratore o dal datore di lavoro – venga accertata l’inesistenza della giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c., il lavoratore che abbia conseguito l’indennità di disoccupazione sarà tenuto a restituire all’INPS tutti gli importi ottenuti a tale titolo.