Malato Oncologico chiede il trasferimento nella sede più vicina e viene licenziato, per La cassazione il Licenziamento è nullo
Rifiuta il Trasferimento e viene licenziato, Per Il tribunale di Bologna il licenziamento è nullo
Con la recentissima ordinanza n. 30080 del 21 novembre 2024, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha dichiarato illegittimo il licenziamento irrogato nei confronti di un lavoratore che, dichiarato invalido al 100%, si è rifiutato di continuare il servizio nella sede presso la quale aveva sempre prestato la propria attività lavorativa, richiedendo invece il trasferimento in una sede più vicina alla sua abitazione.
Il caso
La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte attiene a un rapporto di lavoro intercorrente fra una società e un dipendente che, dal 2019, soffre di una patologia oncologica che ha comportato il riconoscimento della sua invalidità al 100% e della sua condizione di portatore di handicap in situazione di gravità.
Quest’ultimo ha infatti richiesto alla propria datrice di lavoro un trasferimento in una diversa unità locale, più vicina alla sua dimora, dichiarando altresì di essere disponibile ad accettare anche un mutamento di mansioni, anche inferiori, se posta come condizione per l’assegnazione alla nuova sede.
La società, tuttavia, ha rigettato tale richiesta, affermando l’assenza di ragioni validamente determinanti l’impossibilità del lavoratore di continuare la propria attività lavorativa presso la propria sede di provenienza e, dunque, il dipendente – avvalendosi dell’eccezione di
inadempimento – ha rifiutato di svolgere le proprie prestazioni lavorative presso quella unità produttiva.
A seguito di vari inviti del datore di lavoro a riprendere l’attività, mai riscontrati positivamente in difetto della disposizione di trasferimento richiesta, il lavoratore è stato licenziato ed ha impugnato il provvedimento espulsivo affermando la legittimità della propria condotta.
Il datore di lavoro ha resistito in giudizio specificando come, a proprio avviso, fosse onere del dipendente disabile dimostrare la sussistenza delle condizioni per avvalersi del diritto ad essere trasferito presso un’altra sede di lavoro e di essere impossibilitato a riprendere servizio presso la sede originaria.
Tale tesi è stata in parte sposata dai Giudici di merito, avendo La Corte territoriale affermato che, pur qualora il malato oncologico possa vantare il diritto all’assegnazione di una sede di lavoro diversa da quella originaria, ciò non potrebbe comunque giustificare l’eccezione di inadempimento invocata dal lavoratore.
La sentenza
La Cassazione, con l’ordinanza n. 30080 del 21.11.2024 – su ricorso del lavoratore – ha ribaltato la pronuncia di merito.
Preliminarmente, infatti, si è rilevato l’errore della Corte territoriale nel prescindere dalla valutazione in merito alla possibilità, per il datore di lavoro, di adottare ragionevoli accomodamenti in considerazione delle patologie e limitazioni del lavoratore. Infatti, ha sostenuto la Corte, non è il lavoratore a dover dimostrare l’impossibilità di riprendere servizio a causa delle proprie condizioni di salute già accertate, anche in considerazione del fatto che l’ordinamento – sia interno e comunitario – prevede speciali norme di protezione per le persone affette da disabilità.
In tal senso, è evidenziato come la disciplina interna (d.lgs. n. 216 del 2003, in attuazione della direttiva 2000/78/CE) prevede che “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli… sui diritti delle persone con disabilità nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
Altrimenti, secondo la Corte, si verte in un’ipotesi di discriminazione, legata per l’appunto alla mancata concessione da parte del datore di lavoro degli accomodamenti ragionevoli.
Per accomodamenti ragionevoli, in particolare, si intendono “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Sulla base di tali principi, diffusi a livello europeo e sovranazionali, la Suprema Corte ha sottolineato come la Corte territoriale, nel decidere in merito al caso sottoposto alla sua attenzione, non abbia tenuto conto dell’entità dell’inadempimento datoriale, che invece assume una notevole gravità nell’ipotesi di specie in quanto consistente in un vero e proprio rifiuto di porre in essere tali accomodamenti ragionevoli nei confronti di un soggetto meritevole di peculiare protezione e salvaguardia di fondamentali esigenze di vita e di salute.
La Corte, pertanto, ha concluso dichiarando legittimo il rifiuto opposto dal lavoratore alla domanda di ripresa immediata dell’attività lavorativa e discriminatorio, invece, il comportamento espulsivo del datore di lavoro, il quale deve sempre tenere in considerazione il sistema – in continua evoluzione – di tutele predisposte dall’ordinamento nei confronti di persone con disabilità.
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