Lo Smart Working Può Essere Un Diritto Dei Lavoratori
Lo smart Working è un diritto dei lavoratori? A volte sì.
Il lavoro agile, noto come smart working, è stato introdotto in Italia con la legge n. 81/2017. Inizialmente accolto con scetticismo – come già evidenziato in un nostro articolo di poco successivo all’entrata in vigore di tale legge – ha poi mostrato i suoi vantaggi durante la pandemia da Covid-19, favorendo la sicurezza dei lavoratori, la riduzione dei costi aziendali e un miglior equilibrio tra vita privata e professionale.
Terminata l’emergenza sanitaria, si è gradualmente tornati alla disciplina previgente, che richiede un accordo individuale tra lavoratore e datore di lavoro per attivare lo smart working. Tale accordo deve rispettare diverse formalità e requisiti sostanziali, di cui pure si è trattato in un precedente articolo.
Tuttavia, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha stabilito che, in alcuni casi, può configurarsi il vero e proprio diritto allo smart working.
Cosa dice la nuova sentenza della Corte di Cassazione?
Come detto, la normativa attuale stabilisce che lo smart working non è un diritto soggettivo, ma richiede la stipulazione di un accordo tra le parti del rapporto di lavoro.
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha affermato nella sentenza n. 605/2025 che in situazioni specifiche, come nel caso di lavoratori con disabilità, può rappresentare un “accomodamento ragionevole” richiesto dalla normativa antidiscriminatoria.
Il caso esaminato riguardava un lavoratore con deficit visivo, impiegato in un servizio di customer care, che aveva richiesto di svolgere la propria attività in smart working a causa delle difficoltà di accesso alla sede aziendale. L’azienda, pur prevedendo lo smart working per altre categorie, lo aveva negato per il suo ruolo. Il lavoratore ha quindi avviato un’azione legale facendo valere la natura discriminatoria di tale condotta.
Il Tribunale di primo grado aveva respinto il ricorso, ma la Corte d’Appello ha riconosciuto il diritto del lavoratore allo smart working, decisione poi confermata dalla Cassazione.
Il principio di diritto stabilito dalla Corte
La Corte ha fondato la sua decisione sull’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216/2003, che impone ai datori di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire pari opportunità ai lavoratori con disabilità.
La Cassazione, in particolare, riprende la distinzione fra discriminazione diretta e indiretta: un comportamento aziendale discriminatorio, infatti, non è tale solo quando pregiudica direttamente un lavoratore con disabilità, ma anche quando si tratta di una disposizione apparentemente neutra che, tuttavia produce un effetto svantaggioso nei confronti del lavoratore. In questi casi, l’onere della prova spetta al datore di lavoro, che deve dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie per eliminare tale svantaggio.
Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che permettere al lavoratore di operare in smart working non avrebbe comportato costi o difficoltà eccessive per l’azienda, essendo una soluzione già adottata durante la pandemia. Ha inoltre affermato che, qualora il datore di lavoro non trovi un accordo con il lavoratore, il giudice può intervenire per individuare la soluzione più adeguata.
Disabilità e Smart Working
Questa sentenza segna un’importante evoluzione nel diritto del lavoro, riconoscendo che lo smart working, pur rimanendo generalmente soggetto ad accordo, può costituire un diritto per i lavoratori con disabilità, nel rispetto del principio di non discriminazione.
Le conclusioni della Corte mostrano la necessità di un intervento legislativo per aggiornare la disciplina dello smart working, tenendo conto delle sue potenzialità e dell’evoluzione del diritto antidiscriminatorio a livello nazionale ed europeo.
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