A distanza di circa un anno dall’entrata in vigore delle norme della legge n. 81 del 22 maggio 2017 che introducono la nuova disciplina dello “smart working”, i primi dati che giungono dal Ministero del Lavoro dimostrano che, almeno ad oggi, la normativa in tema di smart working ha avuto scarsissima applicazione. Secondo i dati pervenuti solo 114 aziende hanno chiesto (e ottenuto) gli sgravi contributivi pari al 5% della retribuzione prevista per i programmi di lavoro agile.
Il motivo? sembra da ricercarsi in un approccio piuttosto cauto da parte delle aziende, ma anche dei lavoratori, che spesso vedono l’allontanamento dal posto di lavoro come anticamera del licenziamento oppure temono che il lavoro fuori dall’ufficio finisca per coinvolgere eccessivamente anche la propria vita privata.
Facciamo un po’ di chiarezza sul tema, il legislatore identifica come smart working:
una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa” (art. 18, comma 1, legge n. 81/2017).
Grazie alla diffusione delle tecnologie informatiche la regolamentazione del lavoro agile o smart working prende atto ed è applicabile alle aziende del territorio. Giustamente l’estrema flessibilità – in termini di tempo e luogo – attraverso la quale si realizza il lavoro agile pone non pochi interrogativi, sotto il profilo della qualificazione della fattispecie lavoro subordinato e lavoro autonomo.
Il confine tra lavoro autonomo e subordinato appare sempre più labile. Basti pensare alle modifiche introdotte alle collaborazioni organizzate dal committente (art.2 comma 1, D.lgs. n. 81/2015), nel quale le stesse subiscono il controllo del committente in ordine all’organizzazione della prestazione quanto a “tempi e luogo di lavoro” (eterorganizzazione). Esattamente l’opposto di quanto avviene per il lavoro subordinato agile, dove invece il datore di lavoro perde il controllo proprio sui tempi e luoghi di lavoro (ferma restando la conservazione dell’eterodirezione tipica del lavoro subordinato, non rinvenibile nelle collaborazioni ex art. 409 c.p.c.).
Ci si avvicina quindi a quell’idea di Statuto dei Lavori di cui il prof. Biagi scriveva circa 20 anni fa, individuando nei destinatari delle tutele “ogni persona che, con apporto prevalentemente personale, presta la propria opera a favore di terzi, mediante contratto di lavoro autonomo, di lavoro subordinato o qualsiasi altro contratto, tipico o atipico, indipendentemente dalla durata del contratto stesso e dall’ambito aziendale o extraaziendale in cui si svolge la prestazione lavorativa”(vedi articolo 1 del Progetto per la predisposizione di uno Statuto dei lavori, versione del 25.3.1998 reperibile su www.adapt.it)
Il lavoro agile – tuttavia- pur presentando elementi affini al lavoro autonomo per ciò che concerne il tempo e luogo della prestazione – conserva tuttavia le peculiarità del lavoro subordinato tout court (sia sotto il profilo delle tutele applicabili che dei diritti retributivi e assicurativi).
La prestazione di lavoro agile può essere resa “senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro” (art. 18, comma 1, legge n. 81/2017), con l’unico limite fissato dal legislatore del rispetto della durata massima dell’orario di lavoro, sia su base giornaliera che settimanale, derivanti dalla legge o dal contratto collettivo.
Viene richiesta – ai soli fini della prova – la forma scritta dell’accordo tra datore di lavoro e lavoratore e che disciplina la modalità di svolgimento del lavoro agile.
Relativamente ai tempi di lavoro, la mancanza di vincoli di orario rigidi e ben delineati comporta il rischio di una dilatazione senza controllo dei tempi di lavoro, con conseguente riduzione o annullamento dei benefici in termini di conciliazione tempi di vita e di lavoro per il lavoratore. A tal fine, il legislatore introduce il diretto del lavoratore alla “disconnessione” dalle strumentazioni tecnologiche, lasciando però alle singole parti interessate – datore di lavoro e lavoratore – identificarne i confini nell’apposito accordo. Nessuno spazio è riservato a terze parti, quali le organizzazioni sindacali, che vengono chiamate espressamente in causa solo nel caso di accordi aziendali finalizzati al godimento di sgravi contributivi per il datore di lavoro (vedi DM 12.9.2017 di attuazione dell’art.25 D.lgs.80/2015).
Questa flessibilità prevede anche delle restrizioni del trattamento economico?
Assolutamente no. Il lavoratore “agile”, infatti, deve ricevere un trattamento economico e normativo non inferiore a chi svolge l’attività solo all’interno dei locali dell’azienda a parità di mansioni: saranno, quindi, applicabili gli accordi e i piani aziendali sulla retribuzione variabile, in materia di accesso ai servizi aziendali, etc. (art. 20 della Legge).
Anche all’attività lavorativa svolta in modalità di lavoro agile si applicano gli incentivi fiscali e contributivi riconosciuti in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato stabiliti dalla Legge di Stabilità 2016 (art. 1, comma 182 e seguenti, L. n. 208/2015).
Cosa cambia dunque? Certamente il luogo di svolgimento della prestazione, la stessa viene svolta “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa”, elemento questo che contribuisce a differenziarla dal telelavoro che – diversamente – è qualificato come “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’ informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”. Un’ulteriore elemento di differenziazione tra lavoro agile e telelavoro è che per il secondo, come si legge nel citato articolo 1 dell’Accordo interconfederale del 2004, l’utilizzo di strumenti tecnologici è imprescindibile. Tuttavia, appare alquanto surreale immaginare una prestazione agile senza l’ausilio di tali dispositivi.
Viene lasciata massima libertà in quanto alla sede esterna di lavoro, la quale non necessariamente coincide con l’abitazione del lavoratore, sede esterna che è bene definire con precisione nell’accordo tra datore di lavoro e lavoratore, anche per le implicazioni assicurative e di tutela della salute e sicurezza del lavoratore che da questa ne derivano.
Vi starete chiedendo come si realizza la prestazione agile, il legislatore ha previsto un nuovo obbligo di comunicazione – preventiva – necessaria sia in fase di avvio della modalità agile, che in seguito a determinate variazioni (art. 23, comma 1).
La comunicazione, operativa dal 15 novembre 2017, tramite apposito modello ministeriale, (“comunicazione accordo smart working”), risponde all’esigenza di avere contezza dell’esistenza di questo tipo di rapporti, da parte del legislatore, e riveste particolare importanza ai fini della risarcibilità di eventuali infortuni occorsi al lavoratore agile.
Le modifiche consentite rispetto alla prima comunicazione possono riguardare: la tipologia rapporto di lavoro; PAT INAIL; la voce di tariffa INAIL; la tipologia di durata, la durata e il file dell’accordo.
Nell’accordo di lavoro agile le parti sono chiamate a definire le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, come è logico immaginarsi. Tuttavia, il legislatore va oltre, delegando alle stesse anche la definizione delle forme “di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore”, senza che nessuna delega espressa venga fatta alla contrattazione collettiva (art.19, comma 1). E ancora “L’accordo relativo alla modalità di lavoro agile disciplina l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. L’accordo di cui al comma 1 individua le condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari”(art. 21, commi 1 e 2).
Stante il limitato potere direttivo e di controllo del datore di lavoro sul lavoratore, le parti sono state chiamate ad individuare non solo le modalità con le quali può realizzarsi il controllo del datore di lavoro sul lavoratore (es. con report periodici o a fine giornata), ma altresì ad identificare le condotte – e le relative conseguenze sotto un profilo disciplinare – che si realizzano al di fuori dei locali aziendali, avendo tuttavia sempre presente le tutele generali e le procedure individuate dal legislatore per i provvedimenti disciplinari.
L’accordo tra datore di lavoro e lavoratore può essere a tempo determinato o indeterminato. Laddove si preveda senza scadenza, il legislatore stesso ne fissa i termini di preavviso, che non può essere inferiore a trenta giorni (90 giorni nel caso di lavoratori disabili).
Tuttavia, a prescindere dalla durata dell’accordo, il recesso è sempre possibile in presenza di un giustificato motivo, “prima della scadenza del termine nel caso di accordo a tempo determinato, o senza preavviso nel caso di accordo a tempo indeterminato.”
Nonostante gli scarsi risultati raggiunti oggi lo smart working , per innovazione e per la tutela dei diritti dei lavoratori, potrà divenire il lavoro del futuro.