Pubblica un commento offensivo nei confronti dell’azienda: il licenziamento è legittimo

 

Con la sentenza n. 12142 del 6/05/2024 la Corte di Cassazione ha sancito la legittimità del licenziamento per giusta causa successivo alla diffusione tramite il social network “Facebook” di affermazioni diffamatorie nei confronti del datore di lavoro e dei vertici aziendali, lesive dell’immagine dell’azienda stessa.

La Vicenda

 

Un lavoratore dipendente di una società per azioni ha pubblicato nella propria pagina Facebook un post contenente affermazioni diffamatorie nei confronti del datore di lavoro, attribuendogli comportamenti apertamente disonorevoli e infamanti, idonei a qualificare l’azienda in modo offensivo e altamente lesivo della sua immagine; a seguito di tale episodio, l’azienda ha reagito licenziandolo per giusta causa.

Il dipendente ha impugnato il licenziamento, dando origine quindi ad un contenzioso nell’ambito del quale l’esistenza del “post” – visibile ai soli “amici” (di numero comunque estremamente ampio) – è stata confermata da due testimoni, che hanno riferito di aver letto personalmente le affermazioni a oggetto del giudizio, pubblicate sul profilo Facebook del lavoratore. Il Giudice del Tribunale di Palermo ha rigettato il ricorso, qualificando come legittimo il recesso, ritenendo la reazione datoriale proporzionata alla gravità della condotta del lavoratore, definita idonea ad incrinare definitivamente il rapporto di fiducia, indispensabile nel rapporto di lavoro.

La decisione è stata appellata dal lavoratore, ma la Corte d’Appello di Palermo – con la sentenza n. 826 del 2020 – ha aderito alla posizione assunta dal Giudice di primo grado, ribadendo l’evidente carattere diffamatorio del “post” in questione, confermata anche dal mezzo utilizzato dal ricorrente: segnatamente, la Corte ha evidenziato che “Facebook,” quale piattaforma digitale, è “strutturalmente finalizzato a diffondere a una pluralità indistinta di destinatari ogni contenuto pubblicato dagli utenti, sì da amplificarne consapevolmente la potenzialità offensiva anche ove [..] fosse stata limitata alle amicizie del ricorrente”. 

Anche questa decisione è stata oggetto di gravame, giungendosi dunque al giudizio di legittimità; anche la Corte di Cassazione è tuttavia giunta alle medesime conclusioni precedenti, riconoscendo come legittimo il recesso dell’azienda, ponendo un’interessante riflessione sulla distinzione tra “post” pubblico (anche se visibile ai soli “amici Facebook” del lavoratore, definiti dalla giurisprudenza come una “moltitudine indistinta di persone”) e i messaggi in “chat” privata, ove invece la corrispondenza è privata, chiusa e inviolabile, tutelata solo in quest’ultima ipotesi dalle disposizione disciplinate dagli artt. 15 Cost. e 51 c.p. 

La decisione della Corte di Cassazione

 

Il caso sopra descritto è particolare, poiché attiene ad uno specifico utilizzo da parte del lavoratore dei social media; più precisamente, riguarda l’ipotesi in cui il lavoratore si esprime con affermazioni “diffamatorie” verso il datore di lavoro e dell’azienda sì nell’ambito del network di Facebook, ma non all’interno di una chat privata, come tale visibile da una parte limitata di persone (un gruppo di colleghi o di amici), bensì tramite un “post”, come tale potenzialmente visibile da una cerchia indeterminata di pubblico, ovviamente anche esterno all’ambito privato/aziendale. La Corte opera un netto distinguo nell’ipotesi di utilizzo di affermazioni potenzialmente diffamatorie da parte del dipendente a seconda che questo avvenga:

  • all’interno di una “chat” Facebook, ove rilevando l’ambito privato in cui avviene la comunicazione – limitato a una “sola cerchia di persone determinate con la relativa esclusione di terzi della sfera di conoscibilità” – e dovendo quindi tali informazioni necessariamente rientrare nella cornice di segretezza e riservatezza garantita dall’art. 15, il recesso datoriale non può ritenersi legittimo;
  • sulla sua “bacheca virtuale,” ovvero con un post, ossia in uno spazio “pubblico” in cui il singolo utente può liberamente condividere e inserire contenuti, compilando la casella “cosa pensi?” e le cui risposte sono disponibili senza specifiche limitazioni a qualsiasi utente tramite plurime modalità (ad esempio “follow”, “richiesta di amicizia, etc…”), non certamente rientrante nell’alveo oggetto di tutela costituzionale come sopra descritta, poiché potenzialmente rivolto a una pluralità indistinta di destinatari, potendo dunque invece legittimamente in tali ipotesi il datore procedere al recesso per giusta causa.

In tali ultimi ipotesi, pertanto, sottolinea la Suprema Corte, è evidente infatti la portata diffamatoria del contenuto del “post” del lavoratore, anche se visibile ai soli “amici” …. di ‘Facebook ‘ …., per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone: quanto all’elemento soggettivo del dolo da parte dell’autore, è opportuno rimarcare che – secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte di Cassazione (), questo è irrilevante ai fini della legittimità del recesso, venendo in rilievo “l’idoneità del messaggio, una volta immesso sul web, anche su un social ad accesso circoscritto, di sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato” (Cass. 27/04/2018, n. 10280 Cass. 26/05/2023, n. 14836).

 

 

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