Nessuna Differenza Giuridica tra Convivente e Coniuge Per L’impresa Famigliare

INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL TEMA DELLA CONVIVENZA DI FATTO E IMPRESA FAMIGLIARE 

In materia di diritto del lavoro, la Corte costituzionale ha sempre assunto un ruolo fondamentale, trovandosi spesso a intervenire sulla disciplina legale lavoristica al fine di conformarla ai precetti costituzionali che, come noto, sono in continua evoluzione.

Quest’anno i Giudici delle leggi si sono pronunciati – come visto nei nostri precedenti articoli – su plurime questioni attinenti al c.d. jobs act e alle tutele applicabili nei casi di licenziamento illegittimo, ma non solo: con la recente sentenza n. 148 del 25 luglio 2024, infatti, la Consulta ha affrontato il tema dell’impresa familiare, in particolare estendendo ai conviventi di fatto i diritti e le tutele tipici dei congiunti.

In altre parole, a seguito dell’intervento della Corte, non vi è differenza fra coniuge e convivente nel contesto giuridico dell’impresa familiare.

 

Il caso

Il caso sottoposto all’attenzione dei Giudici delle legge aveva per oggetto le rivendiche di una lavoratrice che, a seguito del decesso dell’uomo con cui aveva stabilmente convissuto per oltre 12 anni, aveva deciso di ricorrere giudizialmente nei confronti degli eredi del partner, al fine di chiedere l’accertamento dell’esistenza di una impresa familiare e ottenere la conseguente regolarizzazione della sua posizione giuridica. La donna, in particolare, chiedeva la condanna alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipante all’impresa agricola di proprietà del defunto marito.

Tali richieste venivano respinte dal giudice di primo grado, il quale riteneva che il convivente di fatto non poteva essere considerato “familiare” ai sensi dell’art. 230-bis, 3° comma, c.c.. La pronuncia veniva confermata in sede d’appello. Così la lavoratrice decideva di ricorrere dinanzi alla Suprema corte, evidenziando anche “la mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità e sia costituzionale”.

Considerando la delicatezza della questione e la sua inevitabile attinenza con i principi costituzionali, le Sezioni Unite della Corte di cassazione avevano sollevato più questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare – con riguardo, in particolare, agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione – nella parte in cui il convivente more uxorio non era incluso fra i “familiari”.

 

La pronuncia della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale ha accolto le questioni sollevate dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, partendo dall’assunto per cui la società attuale è profondamente mutata e ha visto uno sviluppo convergente, sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, ordinaria ed europea, in materia di convivenze di fatto. 

In tal senso, fermo restando il ruolo attribuito dall’ordinamento alla famiglia fondata sul matrimonio, la famiglia composta da conviventi di fatto è meritevole di piena dignità sociale e giuridica. Pertanto, con riguardo ai diritti fondamentali, non possono assumere rilievo le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, poiché essi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. “Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che nelle argomentazioni della Corte “nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.

In definitiva la Consulta, nel sottolineare che la tutela del lavoro è “strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare”, ha ritenuto “irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare” ha  dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, comma 3, c.c., relativamente alla parte in cui non si prevede come familiare anche il “convivente di fatto”, nonché il passaggio in cui non si considera “impresa familiare” quella in cui collabora anche il “convivente di fatto”. È stata infine dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-ter c.c., introdotto dalla legge Cirinnà (76/2016), che riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta.

 

Le conseguenze della decisione

Tale pronuncia consentirà, come sottolineato dai giudici stessi, di estendere talune forme di tutela a soggetti che, finora, ne erano esclusi, così ulteriormente allargando il novero delle imprese familiari e il campo applicativo della relativa disciplina, con l’obiettivo di ridurre il più possibile il “lavoro gratuito” del convivente.

Da un diverso punto di vista, tuttavia, in tal modo viene meno la doverosa applicazione della normativa in materia di lavoro subordinato, che attribuisce al prestatore sicuramente maggiori diritti e maggiori certezze rispetto a quella dell’impresa familiare. Il rischio verosimile è che si ricorra a tale istituto anche nelle ipotesi in cui non vi sia una vera e propria “convivenza di fatto”, al solo fine di aggirare la disciplina del lavoro subordinato.

 In ogni caso, la questione è sicuramente destinata ad avere un effetto notevole nel panorama giuridico Italiano, considerando che nel nostro Paese le aziende familiari rappresentano la tradizione e costituiscono una parte importante del prodotto interno lordo. Basti pensare che alla fine del 2021, in Italia vi erano ben 17.897 aziende con ricavi superiori a 20 milioni di euro, di cui ben 12.500 erano di tipo familiare, rappresentando il 69,8% delle imprese in questa fascia di ricavi. 

(Foto di Martin Baron su Unsplash)

 

 

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